martedì 7 agosto 2012
Intervista a Stefano Rodotà
di Andrea Carugati
«Il nuovo rapporto tra Pd e Sel è una novità importante, una scelta che fa chiarezza anche nei confronti dell’opinione pubblica. E che non si può giudicare con le categorie psicologiche del tradimento o dell’abbandono», spiega Stefano Rodotà, professore emerito di Diritto civile alla Sapienza, già presidente dell’Autorità garante della privacy.
Dunque ritiene che l’uscita di Di Pietro sia un fatto positivo?
«La cosiddetta “foto di Vasto” era un’entità irrisolta, contestata da più parti anche dentro lo stesso Pd, che non consentiva di fare passi politici significativi, di costruire un’agenda di governo dei progressisti. È indubitabile che, dopo il successo di Grillo alle amministrative, Di Pietro abbia fatto una scelta totalmente populista, per paura di perdere una quota consistente del suo elettorato. Una operazione che ha trovato il suo apice nell’inaccettabile aggressione al Quirinale».
Il nuovo schema Pd-Sel si può considerare risolutivo?
«I soggetti di questa alleanza si trovano davanti a un impegno gravoso, non si può dire che tutto sia risolto. E tuttavia ritengo che la Carta d’intenti presentata da Bersani sia utile per mettere a punto una diversa agenda politica. È un lavoro difficile, perché in questi anni le agende hanno avuto un respiro cortissimo, legato a convenienze e strumentalizzazioni. La Carta del Pd compie un’opera di efficace disboscamento rispetto al programma dell’Unione del 2006 di oltre 270 pagine.
Ma non basta. Può essere un punto di avvio per mettere a fuoco i soggetti, i temi e le gerarchie. Uno di questi è il rapporto con la cosiddetta “agenda Monti”: mi pare che la direzione indicata da Bersani sia un’altra, nonostante le santificazioni del governo tecnico che vengono da alcuni settori Pd».
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